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Gli scatti che vedete sono il frutto
del lavoro di un fotografo dilettante in anni di viaggi e avventure nel mondo.
Vorrei definirmi più un viaggiatore che un turista: quando sono in giro per
questo nostro piccolo pianeta mi piace immergermi nelle persone e nei posti che
tocco piuttosto che osservarli da dietro un vetro. Allora cerco di mangiare con
loro, vestirmi come loro, calarmi nella realtà del Paese che mi ospita. Questo
lo devo, oltre che ad un carattere estroverso e ad un’inesauribile curiosità,
anche a letture come Hesse, Terzani, Chatwin. Soprattutto di quest’ultimo mi
folgorò il modo in cui definì la sua infinita voglia di viaggiare (la stessa che
De Andrè, riferendosi al popolo Rom, chiamava dromomania): anatomia
dell’irrequietezza. Quante volte, trovatomi nelle situazioni più strane in
posti sperduti del mondo, mi sono posto quella famosa domanda con cui il noto
viaggiatore/scrittore britannico ci ha intitolato un libro: “Che ci faccio
qui?”
Quando premo con il dito indice destro il pulsante della fotocamera cerco di
bloccare quel secondo, quell’emozione, quel colore o quell’espressione del viso.
A dire il vero qualche foto l’avrò fatta anche con l’indice della mano sinistra,
dal momento che con la destra ci tenevo la telecamera (i video, altra mia
passione), perché certi attimi durano appunto un attimo e poi non tornano più.
Ed è per questo che le foto spesso non riescono come vorrei, anzi, parodiando
Omar Khayyam, le migliori foto sono quelle che non ho fatto: contadini curvi
sulle risaie, uccelli in volo, panorami e tutto ciò che ho visto mentre ero in
auto, su un aereo o in treno mentre pensavo, dondolato dal vagone…
Visto che spesso pecco di superbia, mi faccio un bagno, o meglio una tinozza,
d’umiltà: se qualche foto è venuta bene, lo si deve anche al fatto che in fondo
i soggetti si prestano. Mi spiego con un esempio: il Taj Mahal, da qualunque
parte lo si fotografi, viene bene, quindi il fatto di aver visitato e poi
catturato in digitale alcuni dei luoghi più belli del mondo mi ha facilitato il
compito. Se volete, “senza falsa modestia” come diceva il mio amico Gigi, sono
stato bravo ad evitare inquadrature scontate e classiche, viste e riviste sulle
riviste, ed ho avuto il merito di averne cercate di nuove ed originali. Ma per
fare belle foto non bisogna per forza andare in luoghi esotici: la propria città
è un’ottima modella, come potrete vedere. Anzi, io giro il mondo per poter dire
che Gubbio è il posto più bello del mondo. Però il mio consiglio è di viaggiare
il più possibile, per vivere di più: “Lentamente muore chi non viaggia, chi non
legge, chi non ascolta musica” (Neruda).
Infine, come direbbe Marzullo, si faccia una domanda e si dia una risposta.
- Perché faccio le foto?
Qualcuno una volta disse che se una cosa non va in TV o sui giornali non è mai
accaduta, io scherzosamente aggiungo che se uno non ha la foto di un luogo, lì
non c’è mai stato… scherzi a parte, penso, come dice un proverbio indiano, che
tutto ciò che non viene regalato o condiviso va perduto. Quindi mi piace
far vedere il mondo a chi il mondo non lo può vedere: penso a mia nonna
Adalgisa, che guarda il mondo attraverso i miei occhi, che mi spinge sempre a
partire (cfr. ma du cavolo arvai? Perché ‘n te riposerai du giorni?), ad
assaggiare cibi esotici (cfr. ‘n armagna’ gli animali strani che dopo
‘n li digerischi), a cercare le situazioni più strane e pericolose (cfr.
‘n arfa’ ‘l bagno du c’enno i coccodrilli). Ma che in fondo ogni volta mi
porta fortuna con il nostro rituale di partenza, tipo
-
Nonna, parto per l’India
-
Alora ‘n ce sei per cena?
Finora ha funzionato e la pellaccia l’ho sempre riportata. Per chi non
capisse il termine, traduco con la collaborazione di Guccini: nel mondo sono
andato, dal mondo son tornato sempre vivo
RINGRAZIAMENTI
Innanzitutto Gianfranco: sia perché
molte delle foto le ho realizzate durante i viaggi da lui ben organizzati, sia
perché da lui ho appreso e perfezionato l’arte del baratto.
Poi i miei compagni di viaggio, che con tanta pazienza hanno sopportato una
sosta non prevista od un mio rientro ritardato sul pullman, per scattare una
particolare foto (tranne quelli del Nepal che mi hanno lasciato a piedi in mezzo
alle montagne).
Quindi chi mi ha aiutato a scegliere le foto.
Infine, la dedica è per mio padre, che mi ha trasmesso il piacere del viaggio e
che ci impiegava un quarto d’ora a mettere a fuoco con la sua Fujika, ma ogni
tanto qualche bella immagine veniva fuori. Tranne quella volta in Calabria dove si
era dimenticato di inserire il rullino: non abbiamo una foto di quella vacanza,
pertanto in Calabria non ci siamo mai stati.